Dall’ospedale alla casa, tra turni e auto-isolamento. Le giornate delle due professioniste impegnate sul fronte della pandemia: «È lunga e ostica, ma questa crisi ci ricorda il privilegio della normalità»

28 Marzo 2020

Francesca Luisi da Rho, 39 anni e una figlia di 7; Dania Mazzola da Malnate, provincia di Varese, 43 anni e un figlio di 9. Entrambe mamme, e colleghe, pneumologhe, dunque sul fronte pieno della pandemia. Il loro è quello dell’ospedale San Giuseppe, quasi interamente riconvertito, in fretta ma con strategia, e affidandosi anche all’ingegno del momento ovvero porte tirate su in un niente e dal niente per isolare maggiormente i reparti coronavirus. Mamme, Francesca e Dania, con tutto quel che ne consegue.

Dalle pagine del Corriere della Sera si raccontano, quantomeno forniscono degli indizi, su cos’è, adesso. La voce alta, ritmica, scattante della dottoressa Mazzola, pur reduce da sei ore (dalle 20 alle 2) di turno in corsia, e di altre 6 ore (dalle 2 alle 8) a disposizione in ospedale per le emergenze («L’adrenalina… torno a casa e mi metto a sistemare di qua e di là, a far questo e quello, nonostante il sonno saltato, fin quando mi fermo e dico “Ok, calmati”»); e poi la voce bassa, stanca, profonda della dottoressa Luisi, lei reduce da due giorni senza sosta. Va così, domani si daranno il cambio negli stati d’animo, è una continua sollecitazione del corpo e della mente, che passano per appunto dall’energia alla spossatezza. Sono le storie di centinaia d’altri medici, certo; però c’è stato un aneddoto, confidato da Dania, che aiuta a capire. Ed è il motivo, in aggiunta al loro impegno professionale, per il quale le trovate in questa pagina.
Ha detto dunque la dottoressa Mazzola: «Alcuni colleghi hanno scelto di isolarsi affittando un appartamento. Per star da soli ed evitare rischi alle famiglie. Ci ho pensato a lungo. In più, ogni giorno sono sessanta chilometri ad andare e sessanta a tornare. Avrei potuto evitarmi questa fatica aggiuntiva? No, mai. Mio figlio mi aspetta. Anche se vivo la situazione con giustificata paura. La paura di portare a domicilio il nemico… In ospedale, abbiamo raggiunto grandi livelli di sicurezza. Dopodiché, superata la porta della mia abitazione, che per fortuna è abbastanza grande, corro filata in bagno, getto i vestiti in un sacchetto che finirà immediatamente in lavatrice, mi lavo e rilavo, lavo e rilavo, lavo e rilavo, lavo e rilavo… Mi sono sistemata nella stanza degli ospiti, per dormire, in cucina c’è un bicchiere da cui devo bere soltanto io, in bagno ho messo asciugamani dedicati a me… Piccole cose, fondamentali. Insomma, cerco di alzare il numero maggiore di protezioni… E in verità, e può immaginare con quanta sofferenza, specie dopo il dolore in ospedale, il dolore di figli che non riescono a salutare per l’ultima volta i loro genitori, ecco, in verità ho ridotto drasticamente i momenti di fisicità col mio bambino… Niente abbracci, niente di niente, anche se, detto fra noi, qualche bacio furtivo, rapidissimo, magari di notte quando dorme, me lo concedo, sui capelli…».

E lei, Francesca? «È straziante impedire a mia figlia di corrermi incontro appena rientro. “Ferma lì, lontana, aspetta che mamma scappa in doccia”. Qualcuno obietterà: via, c’è di peggio. Noi per prime lo sappiamo, ci viviamo dentro, nel peggio: stiamo avendo una fase lunga di piena emergenza, andiamo avanti giorno per giorno ma sarebbe un errore concedersi facili illusioni, mettersi in testa una data a breve, contare il tempo che manca… Parliamoci chiaro: è dura, è ostica, e soprattutto il periodo sarà lungo». Del resto, dice Dania, «una delle preoccupazioni aggiuntive è la mia età. Una di quelle a rischio. Sì, certo, ho 43 anni: dobbiamo smetterla di pensare che il virus colpisca unicamente le persone anziane. Nessuno è immune, prima ne prendiamo coscienza e meglio è».
Sia la dottoressa Mazzola che la dottoressa Luisi sono specchio di quest’Italia. Dania: «Mio marito, ingegnere, di solito impegnato in numerose trasferte, ora lavora da casa con lo smart working, e questo aiuta il cosiddetto equilibrio famigliare, visto che i nonni sono categoricamente trincerati nelle loro abitazioni…». Francesca: «Eh, i nonni… Mia figlia non accetta di vederli in videochiamata, si aspetta ogni mattino di tornare a vederli fisicamente… C’è sempre da imparare, in ogni momento: l’umanità è uscita da situazioni devastanti, usciremo anche dal virus. Dopodiché lasci perdere me, che sono dottoressa nei reparti Covid-19… Ci siamo tutti dentro... È una malattia ma ancor prima un’infinita sequenza di tragedie famigliari, che ci possono insegnare, qualora ce ne fossimo dimenticati perché sbadati, distratti, strafottenti, lo straordinario valore e il privilegio della normalità della vita. Quando sto con mia figlia, e davvero sono momenti brevi, ci rimane male se mi arriva un messaggio dal cellulare e io mi alzo, lo prendo e leggo l’sms. So che dovrei silenziarlo, il telefonino, ma non posso: sono notizie che arrivano dall’ospedale, e spesso sono brutte notizie.
 
Le dottoresse Francesca Luisi e Dania Mazzola, dell'Ospedale San Giuseppe di Milano