21 Marzo 2024

La nostra vita è già cambiata e cambierà ancor di più nei prossimi anni, in una manciata di tempo. D’altra parte, già oggi ci siamo abituati a un mondo diverso rispetto a soli pochi decenni fa: i tifoni non sono più appannaggio di paesi lontani ma si abbattono anche sulle nostre città, come avvenne la scorsa estate quando Milano fu devastata con migliaia di alberi sradicati e distrutti dalla furia del vento e della tempesta. Abbiamo inverni senza neve, con gran parte delle stazioni sciistiche del nostro Paese in crisi che si interrogano sul loro futuro: quante resisteranno ai cambiamenti climatici delle prossime stagioni? Eppure, solo venti o trenta anni fa il problema non si poneva nemmeno.
Intanto un altro fronte impegna quotidianamente i nostri polmoni: l’inquinamento dell’aria. I due temi non sono disgiunti, anzi, possono essere in gran parte affrontati assieme. Il punto però è se le nostre coscienze sono pronte a radicali cambiamenti di stili di vita. Quelle dei nostri figli e dei più giovani probabilmente lo sono, basti pensare al seguito che ha avuto Greta Thunberg e all’attenzione che molti di loro hanno per l’ambiente. Ma noi, padri, madri, nonni e nonne, generazioni attive e classe dirigente, lo siamo? Siamo disposti a consumare meno carne, adottare una mobilità sostenibile, mangiare la frutta solo di stagione, rinunciare a viaggiare in aereo quando si può prendere il treno? Perché da questi comportamenti individuali può partire una rivoluzione capace di influenzare la società e la politica.

L’Italia, purtroppo, è stata uno dei paesi che in questi mesi ha guidato a livello europeo il fronte del no all’adozione dei nuovi valori soglia per gli inquinanti atmosferici, indicati da tutta la comunità scientifica e dall’OMS come protettivi per la salute dell’uomo. E in parte ha vinto, ottenendo pochi giorni fa una risoluzione meno restrittiva di quella voluta dagli esperti internazionali e una proroga di 10 anni per la Pianura Padana. Ma ha fatto l’interesse dei suoi cittadini? Uno studio recentemente pubblicato sulla rivista International Journal of Public Health stima che il rinvio di 10 anni dell’adempimento ai nuovi limiti sulla qualità dell’aria potrebbe causare in tutta Europa quasi 330.000 morti premature, un terzo delle quali nel nostro Paese.
Prendiamo l’esempio di Milano: con una popolazione di quasi 1,4 milioni di abitanti è la seconda città metropolitana d’Italia, storicamente afflitta dal problema dello smog sia per le numerose fonti di emissione di quest’area geografica (industriali, residenziali, da traffico e da allevamenti intensivi) che per le particolari condizioni orografiche, che non favoriscono la dispersione degli inquinanti atmosferici e sono responsabili di fenomeni di inversione termica. La pianura Padana è un vero catino che intrappola a terra qualsiasi inquinante.

Per valutare gli effetti sanitari a lungo termine sulla popolazione cittadina, l’Agenzia per la Tutela della Salute di Milano (ATS-MI) ha recentemente condotto uno studio nel quale ha stimato i livelli delle concentrazioni degli inquinanti (NO2, PM10 e PM2.5) nell’anno 2019. I dati sono stati poi incrociati con le informazioni sanitarie e anagrafiche georeferenziate. I risultati, recentemente pubblicati su Epidemiologia&Prevenzione, la rivista dell’Associazione italiana di epidemiologia, permettono di definire una vera e propria mappa dell’inquinamento e dei suoi effetti, quartiere per quartiere, e rivelano, per la prima volta, che biossido di azoto e polveri sottili hanno tassi di decesso per 100.000 abitanti che possono arrivare fino al 60% in più in alcune zone della periferia milanese rispetto al centro città. Gli oltre 1600 decessi all’anno per tutte le cause attribuibili al PM2.5 e gli oltre 1.300 decessi all’anno attribuibili al biossido di azoto a Milano non sono infatti distribuiti allo stesso modo sul territorio. L’inquinamento ha effetti più grandi soprattutto nei quartieri periferici attraversati da strade molto trafficate, densamente abitati e dove vivono una maggior quantità di persone con oltre 65 anni, più fragili di fronte agli effetti dello smog. Anche altri elementi relativi alle caratteristiche socio-economiche della popolazione possono contribuire a spiegare perché l’inquinamento colpisca più duramente in periferia rispetto al pieno centro (è noto scientificamente che la popolazione meno abbiente e più disagiata sia più vulnerabile). Ad ogni buon conto, il tasso di decessi risulta decisamente maggiore in alcune zone rispetto ad altre, meno urbanizzate e più verdi.

Il caso di Milano potrebbe ben rappresentare quello che accade anche in altre grandi città italiane che registrano nelle aree periferiche elevati livelli di inquinamento atmosferico a causa della combinazione di diversi fattori: elevato numero di abitanti, intenso traffico veicolare, poco verde con ristagno d’aria.
A “salvare” le zone centrali sono le zone a traffico limitato (Ztl), che giocano un ruolo molto importante nel ridurre inquinanti e loro effetti nocivi per la salute, come documenta una review pubblicata sulla rivista Lancet Public Health dall’Imperial College di Londra. La revisione ha passato in rassegna 16 studi condotti sulle Ztl in Germania, Giappone e Regno Unito, e ha dimostrato una chiara diminuzione dei problemi a carico dell’apparato cardiovascolare, con meno casi di ipertensione, ricoveri, morti per infarto e ictus. In particolare, uno studio tedesco su dati ospedalieri di 69 città con Ztl ha riscontrato una riduzione del 2-3% dei problemi cardiaci e del 7-12% degli ictus, con benefici (soprattutto per gli anziani) che hanno comportato un risparmio di 4,4 miliardi di euro per la sanità. Diversi studi hanno poi evidenziato effetti positivi anche sull’apparato respiratorio.
Le città portuali, che in Italia non sono poche, come Genova, Bari, Brindisi, Ancona, Piombino e altre ancora, hanno problemi diversi ma non per questo minori. Studi recenti hanno documentato come le attività legate al traffico navale siano importanti fonti di inquinamento atmosferico e di rumore, peraltro mitigabili da alcune azioni, come l’implementazione del verde urbano con alcuni tipi di piante arboree.
Quella che in questi anni è emersa chiaramente è la stretta interazione tra smog, cambiamenti climatici, ambiente e salute pubblica.

Bisogna agire con coraggio, con investimenti importanti, come recentemente ricordato in sede Europea da Mario Draghi, e con una visione strategica complessiva e integrata di salute globale. La transizione verde, la lotta all’inquinamento e ai cambiamenti climatici non sono in contrasto con lo sviluppo economico, anzi, ma certi passaggi vanno guidati e sostenuti. Non possiamo fare finta di niente rispetto ai danni ambientali derivanti dagli allevamenti intensivi animali (la cui concentrazione in Lombardia e Emilia-Romagna è rilevante) e agli effetti di alcune attività agricole. Così come lo sviluppo industriale deve essere coniugato al rispetto dell’ambiente. Si parla molto di traffico, e certamente quello veicolare è una importante fonte di inquinamento ma non è la sola. Vanno condotti interventi a più livelli, avendo come obiettivo la qualità dell’aria ed il contrasto dei cambiamenti climatici, bersagli che spesso coincidono.
Migliorare l’ambiente vuole anche dire ridurre le malattie e la mortalità (un recente studio ha stimato in 72.000 decessi all’anno quelli attribuibili all’inquinamento atmosferico nel nostro Paese), allungare la sopravvivenza in buona salute, ridurre i costi sanitari e imprimere una nuova energia positiva allo sviluppo sostenibile.
Le azioni vanno condotte almeno su tre linee direttive:
1) sui trasporti, migliorando quelli pubblici, modificando i layout delle città, sviluppando i trasporti sostenibili (aree pedonali, ciclabili, percorsi protetti abitazioni-scuola-lavoro, zone a traffico limitato), transizione a trasporti meno inquinanti per merci e persone;
2) Sostituzione del legno e del gas con fonti più sostenibili di riscaldamento;
3) Sviluppo di soluzioni tecnologiche per ridurre le emissioni di ammoniaca prodotte dall’agricoltura e dagli allevamenti intensivi animali, riduzione nella dieta del consumo di proteine animali e della carne.


È una sfida difficile, importantissima, che si gioca su più livelli, dalle responsabilità individuali a quelle sociali, industriali, sanitarie e politiche, che il nostro Paese potrebbe guidare, invece che contrastare. Ma ci vuole coraggio e visione per portarla avanti, qualità rare di questi tempi.

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