Uno studio condotto in Lombardia indica che l’esposizione prolungata al biossido di azoto può innescare la rara, ma grave, patologia

04 Febbraio 2018

Lo smog fa male alla salute, non è una novità.
Ora però si scopre che l’inquinamento da traffico potrebbe essere pure corresponsabile di una malattia polmonare rara, la fibrosi polmonare idiopatica: lo suggerisce uno studio italiano appena pubblicato sull’European Respiratory Journal che sottolinea una volta di più, se ancora ce ne fosse bisogno, quanto male possa fare respirare aria poco pulita.
L’indagine, condotta da ricercatori del Centro di Studio e Ricerca sulla Sanità Pubblica dell’Università di Milano-Bicocca e dell’unità di Pneumologia dell’Ospedale San Giuseppe Multimedica di Milano in collaborazione con l’università di Harvard, prosegue uno studio pubblicato lo scorso anno su PLOS One in cui si erano mappati i casi di fibrosi polmonare idiopatica in Lombardia, su dieci milioni di abitanti; ora sono stati messi sotto la lente i nuovi pazienti registrati nella Regione fra il
2005 e il 2010, individuati attraverso i database sanitari amministrativi, confrontandoli con i dati sull’inquinamento atmosferico raccolti nelle aree di residenza di ciascun malato.
I casi studiati sono oltre duemila e gli inquinanti di cui si è tenuto conto sono il particolato atmosferico PM10, il biossido di azoto e l’ozono: valutando l’associazione fra insorgenza della fibrosi ed esposizione cronica a questi composti, è risultato un legame fra lo sviluppo di fibrosi polmonare e aumento nell’aria di biossido di azoto, il gas prodotto in gran parte dagli scarichi dei motori.
«Il dato indica che chi è stato esposto a una concentrazione più elevata del gas ha un rischio più alto di andare incontro alla malattia — spiega Sergio Harari, direttore dell’unità di Pneumologia dell’Ospedale San Giuseppe di Milano —. Per ogni incremento di biossido pari a un microgrammo per metro cubo d’aria cresce dello 0,5 per cento l’incidenza della malattia.
Per PM10 e ozono non abbiamo rilevato associazioni significative, mentre abbiamo stimato che se il livello di esposizione cronica a biossido di azoto si alza di 10 microgrammi per metro cubo l’incidenza di fibrosi polmonare
idiopatica sale tra il 4,25 e l’8,41 per cento. Ed è più elevata dove i livelli di biossido di azoto superano i 40 microgrammi per metro cubo: una correlazione così importante da consentire di mappare i casi lungo il corso di un’arteria stradale molto trafficata. Succede, per esempio, lungo l’autostrada A4».
Il dato è solido perché arriva da una Regione popolosa (con 10 milioni di abitanti la Lombardia conta un sesto di tutta la popolazione italiana) e da misurazioni precise dell’inquinamento ambientale; in più, come spiega Giancarlo Cesana dell’università di Milano Bicocca: «La conformazione della valle padana in generale, e della Lombardia in particolare, favorisce il ristagno degli inquinanti atmosferici e quindi porta a un elevato livello di inquinamento; tuttavia le concentrazioni sono assai variabili da zona a zona all’interno della Regione, perciò la Lombardia è un contesto molto interessante per studiare una possibile associazione tra smog e fibrosi».
Non è facile individuare un legame fra malattie e cause ambientali e nel caso di una patologia relativamente rara riuscirci è ancora più complicato: questi dati sottolineano perciò che lo smog può essere un fattore scatenante di una certa consistenza, anche se non si sa ancora in che modo concorra a provocare la fibrosi. «Sappiamo da altre indagini che l’esposizione a particolato peggiora la storia clinica dei malati, aumentando la mortalità e la perdita di capacità respiratoria — dice Harari —. Un altro studio ha evidenziato come l’incremento di ozono e biossido di azoto nel breve periodo
si associno a un peggioramento della malattia, portando a esacerbazioni acute. I nostri dati però indicano per la prima volta che lo smog può avere un ruolo nello sviluppo della fibrosi: un risultato da non sottovalutare, considerando
la diffusione dell’inquinamento atmosferico e il fatto che purtroppo è ben difficile proteggersi.
Per migliorare le cose possiamo solo sperare in politiche mirate a contenere traffico e smog».
Gli altri fattori di rischio noti per la fibrosi polmonare idiopatica, per cui si stimano circa 19mila pazienti in Italia, sono il sesso maschile, l’età superiore ai 60 anni e il tabagismo: il 60 per cento dei pazienti è fumatore o ex fumatore, ma si suppone che oltre a componenti genetiche predisponenti anche altri elementi ambientali possano avere un ruolo. «Il problema maggiore è arrivare in tempo alla diagnosi: purtroppo trattandosi di una malattia relativamente rara non sempre viene subito il sospetto — ammette Harari —.
I sintomi classici infatti sono la mancanza di fiato progressiva, che compare per sforzi sempre più limitati, e a volte la tosse stizzosa: poiché la fibrosi si presenta nella maggioranza dei casi in uomini over 60 fumatori o ex fumatori il
pensiero corre quasi sempre a una bronchite cronica. Per insospettirsi basterebbe però una semplice auscultazione: il segno tipico è il rantolo crepitante, un rumore simile a quello che fa il velcro quando si apre. Nella fibrosi infatti il tessuto polmonare è sostituito da quello cicatriziale (più “duro”, ndr), così quando il polmone si distende il suono è molto riconoscibile. Una diagnosi tempestiva è importante per poter intervenire con le giuste terapie, anche se purtroppo la mortalità per fibrosi polmonare idiopatica resta tuttora più alta di quella per alcuni tumori», conclude l’esperto.

[Corriere della Sera - Domenica 4 Febbraio 2018]